venerdì 30 gennaio 2015

basta un attimo

i tumble down on my knees,
fill the mouth with snow.
the way it melts, i wish to melt into you.

björk - aurora

quando stamattina mi sono svegliato, e ho aperto la finestra, e fuori tutto era bianco, e c’era quel silenzio strano che c’è solo quando nevica, sono rimasto immobile per qualche momento, trattenendo il fiato, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto dimenticarmi. ho pensato che sarebbe bello, per un po’, non avere tutta questa consapevolezza, e non stare sempre alla ricerca dell’aggettivo perfetto, e non sentirsi il corpo addosso, e non ascoltare il rumore dei pensieri e dei desideri.

[“c’è un momento che si inizia a vivere?”
“quando non te ne accorgi”]

che non voglio sapere che basta un attimo e tutto cambia, basta una piccola distrazione involontaria mentre il tempo continua a scorrere, un foglio di carta che cade a terra senza far rumore, una parola in più, o una in meno, saltare la pagina di un libro, non sentire il pezzo di una canzone o la frase di un film perché ci è arrivata una notifica sul cellulare, perdersi un tramonto, dormire nel letto sbagliato, non capire che qualcuno ci sta chiedendo un abbraccio, o ostinarsi a chiedere un abbraccio a chi non ce lo vuole dare, guardare da un’altra parte o aver paura di guardare dalla parte giusta, anche una sola volta.

[“e c’è un momento che si smette di avere paura?”
“forse quando ne hai di più”]

poi mi sono messo a canticchiare, sottovoce, una vecchia canzone di björk, e sono andato in cucina a farmi un caffè.

[“sto provando a ricordami il tuo sapore”
“mettimi tra le cose che non dici a nessuno”]

quando stasera sono tornato a casa, e ho guardato fuori dalla finestra, il cielo quasi scuro, le nuvole rosse sopra il lago, la neve che si stava sciogliendo, il rumore del traffico lontano, ho pensato che alla fine non facciamo altro che sbagliare e ricominciare, perderci e ritrovarci.


giovedì 22 gennaio 2015

un rifugio

he’d said he’d never face the cold
without her hand there to hold.
that was long ago, when the snow was whiter.

lamb – doves & ravens


ho trovato un rifugio, in questi giorni.
è un libro di uno scrittore norvegese, karl ove knausgaard, che si intitola “my struggle”, ossia “la mia lotta”. non è un romanzo, ma una specie di racconto autobiografico in sei volumi, quasi quattromila pagine di ricordi e riflessioni, storie di famiglia e episodi di vita privata. messa così, sembra una roba di una noia poderosa, e non avrei mai iniziato a leggerlo se non me l’avesse consigliato una persona della quale mi fido ciecamente.
e niente, adesso non riesco a smettere di spiare la vita di questo tizio, anche se non succede nulla di straordinario, anche se non so fino a che punto credergli, quanto l’immaginazione sostituisca la realtà. ma alla fine non importa, perché lui se ne sta lì, e si mette a nudo, e si fa leggere, con la precisione delle sue parole e tutta la luce che ne viene fuori.

[“ecco. adesso sarebbe bello poter fermare il tempo”
“no”
“no?”
“con tutto quello che possiamo ancora far succedere…”]

c’è della neve fresca sulle montagne, e sento il rumore dei minuti che passano, mentre leggo. faccio una pausa e appoggio il libro a terra, mi alzo dal divano, mi faccio un te, e mi rendo conto che, a differenza sua, io non riesco a raccontarmi, non questa volta.

[“a volte non rispondi”
“forse ho paura di quello che potrei dire”]

perché sembra facile parlare di sé, che ci vuole. ma ci sono momenti che siamo codardi, che non ci vogliamo ascoltare, o forse ci ascoltiamo troppo, che vorremmo solo scappare, che le parole ci si fermano in pancia, e restano lì, e si gonfiano.
e allora torna utile un rifugio, come questo libro, o aprire la finestra e guardare se per caso ha iniziato a nevicare, come avevano detto, o un abbraccio, o una canzone nuova dei lamb, o controllare se mi ha scritto per dirmi di stare tranquillo, di non preoccuparmi, che andrà tutto bene, e io un po’ ci crederei, farei un sospiro, accennerei un sorriso, e risponderei che lo so, che andrà tutto bene, che non vedo l’ora di raccontare tutto.

[“andrà tutto bene”
“lo so”]

per ora fuori non nevica, fa solo freddo.



giovedì 15 gennaio 2015

serve tempo per trovarsi

we're doing fine now, yeah we do.
we don't feel sad or bad or blue,
and you know, we're never defeated
or broken inside. 
all that is fine, all that is fine.

beth orton – daybreaker


da quando sono tornato ho fatto finta di non avere tempo per pensare. o forse ho semplicemente lasciato che le cose mi accadessero, non senza andarle un po’ a cercare, lo ammetto, ma con quella sensazione che fossero lì, ad aspettarmi, desiderose di assalirmi.
proprio come le parole che sto scrivendo in questo momento, che sono nascoste, in agguato, pronte ad azzannarmi, a sezionarmi con la loro precisione chirurgica, e che cerco di tenere a bada sorseggiando una birra, prendendo in mano il cellulare, facendo ripartire in loop la stessa canzone di beth orton, controllando se, fuori dalla finestra, le stelle non abbiano bisogno di dirmi qualcos’altro.

[“sei sicuro che non ci siamo già conosciuti?”
“in una vita precedente, intendi?”
“o nella prossima”]

c’erano degli amici a cena, l’altra sera. e non so, sarà che non avevo ancora smaltito del tutto il fuso orario, o che non ero più abituato a lavorare tutto il giorno dopo quasi due mesi di pausa, ma era come essere in una specie di sogno, la musica era alta e parlavamo forte, gli occhi erano più grandi del solito, non avevo così tanta paura, non mi importava se sbagliavamo i congiuntivi, e la casa sembrava piena, e avevo voglia che lo fosse.

[“la tua pelle parla una lingua che assomiglia alla  mia”
“o la tua lingua parla alla mia pelle”]

e mentre parlavamo ero un po’ lì, con loro, a guardarli, e un po’ da un’altra parte, a pensare che serve tempo per trovarsi, e che non bastano due braccia, o una parola giusta, per non sentirsi soli. che non è sempre così facile viversi, anche se ci si desidera tantissimo. che ci facciamo complicati, a volte, solo perché lo vogliamo; ma a volte semplicemente perché siamo complicati e non possiamo fare altrimenti. che ci sono cose più grandi di noi e della nostra voglia di spaccare il mondo, e restiamo ammutoliti. che respiriamo il profumo di una pelle e vorremmo fosse nostra, ma chissà cosa si nasconde, dietro quella pelle, e ci fermiamo.

[“ti ho pensato”
“capita anche a me”
“e hai paura?”
“sempre”]

quindi pare che stasera le stelle non abbiano niente da dirmi. adesso esco io, e mi ascoltano.


mercoledì 7 gennaio 2015

vuoti e pieni

when you curl up in bed and, just you in your head now, are you livin’?

chet faker – to me

sono tornato.
e me l’ero immaginato così diverso, questo ritorno, dopo quasi un mese via di casa. mi ero immaginato qualcuno che mi aspettava, se le cose fossero andate come vanno nei libri più belli. o forse mi ero immaginato qualcuno da aspettare, che poi, nei libri più belli, sono un po’ la stessa cosa. e ho parlato così tanto a me e di me, in questo mese, che adesso mi sento come un vuoto da riempire di nuovo.
e quindi sì, sono tornato, lo stesso di prima, ma anche un po’ più vuoto e un po’ più pieno.

[“quando torni?”
“presto”
“ma quando torni chi sarai?”]

ho cominciato a svuotare la valigia, per sistemare le mie cose, e, come al solito, ho trovato il biglietto del dipartimento di sicurezza americano, che mi avvisava che hanno dovuto aprire il mio bagaglio per fare dei controlli. tutte le sante volte, tutte le santissime volte devono perquisirmi la borsa e mettere tutto sottosopra. chissà, probabilmente i barattoli di burro d’arachidi visti allo scanner sembrano bombe.
fatto sta che, forse tra un controllo e l’altro, uno dei barattoli si deve essere aperto, e mi sono ritrovato burro d’arachidi ovunque: sulle mutande nuove, sui calzini a righe, tra le pagine dei libri, sulla cartina della california, sulla bottiglietta di sabbia del deserto, nei ricordi delle sere da solo e in compagnia, appiccicato tra le parole d’amore e i propositi per l’anno nuovo.

[“mi insegni a cancellare i ricordi?”
“quando tu mi insegni a cancellare i tatuaggi”]

e mentre mi son messo a ripulire, è tornato tutto, così improvviso, così forte che mi ha riempito. come la sera di capodanno, che eravamo in uno dei ristoranti più fichi di atlanta, io, il mio amico americano e i suoi genitori. tra ostriche e vino bianco parlavamo, ci parlavamo, parlavamo così tanto che sembrava quasi di non parlare più. il racconto di un anno, che poi era il racconto di una vita, delle storie che siamo, e io non ci sono abituato a tutto questo amore, e gli occhi erano pieni.

[“non avere paura di guardarmi”
“non ho paura”
“e invece sì. abbassi sempre gli occhi, per un attimo”
“forse perché vedo me”]

e quindi sono tornato e non so se riesco a descrivere la luce del deserto e il profumo di un abbraccio vero.