giovedì 20 novembre 2014

ho pensato a cosa siamo

we die containing a richness of lovers and tribes, tastes we have swallowed, 
bodies we have plunged into and swum up as if rivers of wisdom, 
characters we have climbed into as if trees, fears we have hidden in as if caves.

michael ondaatje – the english patient


a volte metto un po’ di musica, mi faccio un caffè, fumo una sigaretta, mi siedo qui, insieme alla pagina vuota, sospiro, mi alzo, guardo fuori dalla finestra, mi gratto la barba, ti penso, cambio musica, accendo un paio di candele, mi risiedo, bevo un sorso d’acqua e comincio a scrivere. non ho un posto da dove iniziare e, ancor meglio, dove andare a finire.
a volte non so nemmeno io cosa voglio. o forse lo so, ma faccio finta di non saperlo, che è più facile. altre volte, invece, so che vorrei essere il testo di hyperballad.
a volte trovo dentro di me cose che sono nascoste lì da sempre.

[“ma ciao! com’è andata oggi?”]

come ieri sera, che mi sono riguardato il mio film preferito, dopo molto tempo, e ne sono uscito quasi illeso. l’ho guardato per ricordarmi chi sono. e è una cosa bella che ne sono uscito quasi illeso, che sono sempre io ma anche decisamente un altro, che volevo smettere di desiderare ma no, non è ancora il momento, aspetta, non avere sempre fretta, non avere sempre tutta questa maledetta fretta. allora ho spento la tv, dopo che è finito, sono rimasto al buio, ho contato fino a dieci, e ho pensato a cosa siamo.

[“per favore mi passi il sale?”]

siamo libri, pagine che abbiamo sfogliato e parole dimenticate, siamo le canzoni che non ricordiamo, le immagini che ci restano dietro agli occhi. siamo i passi che non fanno più rumore, i corpi che abbiamo preso, le mani che abbiamo perso. siamo le nostre domande, le risposte che non ci hanno dato o abbiamo fatto finta di non sentire. siamo segni, cicatrici, morsi. siamo una nota che salta, un momento che non ha coordinate, un attimo di speranza, un sorriso, luce.

[“stasera ci vediamo un film o facciamo l’amore?”]

poi sì, a volte vorrei nascondermi. così, per precauzione.


lunedì 10 novembre 2014

capodanno

i think about you in the moonlit night
and the stars all seem to weep
when there's so much love to give
there's never any time for sleep, yeah

beth orton – stars all seems to weep


stamattina ero all’ufficio del lavoro, in fila per chiedere la disoccupazione. una cosa di routine, una semplice formalità burocratica, ma pur sempre strana, a ormai quasi trentanove anni. la coda era lunga e, mentre ero fuori ad aspettare il mio turno, sotto la pioggia di novembre, osservavo le foglie gialle sulla strada e canticchiavo una vecchia canzone di beth orton che mi è tornata in mente in questi giorni e sembra non volermi abbandonare.

[“tutte queste cose in comune”
“sì. strano, vero?”
“bellissimo”
“grazie”]

mi guardavo intorno, vedevo l’umanità, l’ascoltavo, canticchiavo “and the stars all seem to weep”, con una specie di nodo alla gola e, come a  capodanno, mi facevo un resoconto di questi mesi, con l’illusione che domani ricomincio, e con tutti i miei buoni propositi che non rispetterò, e la prossima volta non mi faccio fregare, sapendo benissimo che mi farò fregare fregandomene.

[“cos’hai sognato?”
“non ricordo. perché?”
“mi chiamavi”
“o speravo di sognarti”]

e nel frattempo cominciava a crollarmi addosso la stanchezza. di mesi di lavoro, di un’estate lunga e piovosa, delle cose superficiali e delle loro facili delusioni, di una storia così bella e impossibile che mi ha slacciato l’anima, delle notti passate a parlare, delle persone che ti abbracciano anche senza volerlo, degli incontri e degli abbandoni, della consapevolezza che mi son ritrovato in tasca che crescendo non s’impara, ma diventa tutto più difficile.

[“non capisco”
“cosa?”
“sembra quasi che non mi vedi”
“non è colpa mia. sei tu che non esisti”]

fuori fa freddo, e piove a dirotto. esco sul balcone a fumare una sigaretta, e aspetto. a momenti dovrebbero cominciare i fuochi d’artificio.